La leader della Cgil tiene testa al premier, ai
falchi liberisti e ai conservatori dentro il Pd. Riportando il lavoro e i
diritti al centro del dibattito politico. Ritratto di Susanna Camusso.
Se
il premier Mario Monti, voluto dal Presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, ha un motivo serio per esser preoccupato della tenuta del suo
governo tecnico (che tecnico non è), questo motivo si chiama Susanna Camusso.
Cinquantasei anni ad agosto, milanese, occhi azzurro acqua, capelli corti e
folti biondo mesciato, è la prima donna alla guida della Cgil. Proprio lei
riservata (non ama parlare della sua vita privata) e sobria, ma tenace nel
difendere le sue idee, “acomunista” («sono lombardiana da sempre come mio padre
») senza trucco («niente lifting, niente maquillagge ») e senza trucchi («la
vita pubblica deve essere coerente con la vita privata»), sta dando del filo da
torcere al premier che da tempo spende parole di apprezzamento per le “riforme
di struttura” di Riccardo Lombardi. Non solo le liberalizzazioni sarebbero
riforme strutturali necessarie per abbattere quelle che Lombardi chiamava
“rendite e posizioni di parassitismo”, ma lo sarebbe anche la riforma del
mercato del lavoro, compreso l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che
sancisce la “giusta causa” per il licenziamento. Per Monti è un ostacolo agli
investimenti. Per la Camusso una legge di civiltà perché non permette
licenziamenti discriminatori. Evidente tra i due contendenti la diversità
sostanziale nell’interpretare il senso vero di quella strategia, finalizzata,
per Lombardi, a ridistribuire il potere all’interno della società e a riformare
radicalmente il capitalismo; come fu la nazionalizzazione dell’energia
elettrica o la scuola media unica con l’obbligo fino a 14 anni o lo stesso
Statuto dei lavoratori approvato nel 1970. Chi ha ragione? Susanna Camusso,
vicina al Pd, non credente (“non verrò mai folgorata sulla via di Damasco”,
come è capitato a Piero Fassino e a Fausto Bertinotti), né battezzata (“la mia
è una famiglia laica”, il padre lavorava nell’editoria, la madre di origine
slava), con una carriera tutta interna alla CGIL, iniziata a vent’anni nella
Flm, la categoria unitaria dei metalmeccanici (“è stata una stagione di grandi
passioni”), come coordinatrice dei corsi delle 150 ore sulla formazione degli
operai, e per la quale lasciò Lettere classiche alla Statale (“ i miei mi
immaginavano archeologa”)? O ha ragione il premier Mario Monti, già rettore
della Bocconi, economista di fama internazionale e fervente cattolico? La
prima, con l’hobby della barca a vela (“non ha mai avuto i soldi per
comprarla”), dei libri (predilige la Bartlett e le emergenti, Murgia e
Avallone) e della cucina (piatto forte il gulash), che ha dalla sua parte gli
operai, lavoratori e gente comune? O il secondo, elogiato dall’Ocse e dall?Ue,
dai media italiani e internazionali (il Wall street journal gli ha dedicato un
editoriale, che lo definisce così:”Fa la Thatcher: il premier italiano ha una
rara opportunità di educare gli italiani alle riforme”)?
Proviamo a rileggere la lettera del 27 settembre 1962
con cui Lombardi tornava ad insistere con l’allora presidente del Consiglio,
Amintore Fanfani di “non ritardare” l’avvio dei colloqui coi sindacati per lo
Statuto dei lavoratori:”Siamo in presenza di una massiccia pressione sui salari
e occorre dare non solo l’impressione ma la certezza che se non moltissimo si
può fare in fatto di retribuzioni, tuttavia il governo di centrosinistra darà un
bene più prezioso: un nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggiore libertà
sindacale e dunque politica, un maggiore potere ai lavoratori”. Forse allora
chi tra i due interpreta meglio il senso delle riforme strutturali è la
Camusso. Qualche tempo fa, il leader della CGIL ebbe a dire: “Lombardi è uno
dei pochi che non scinde mai il senso delle riforme rispetto alle
caratteristiche del lavoro. Nelle sue ragioni sulla critica del non
funzionamento del centrosinistra, ci mette i diritti dei lavoratori, lo Statuto,
come punto fondamentale. […] Era uno molto
attento ai ragionamenti su quante ore si lavorava, sull’esistenza di una vita
oltre il lavoro, un ragionamento sulla persona, in termini laici”. In questi giorni
la CGIL è stata sottoposta a pressioni molto forti anche di alto livello,
dirette e indirette, spiegano in corso d’Italia: innanzitutto attraverso i
media (Eugenio Scalfari e la Repubblica in testa, ma anche il Corriere della
Sera che ha brindato alla fine della concertazione), per il “non possumus” a
cancellare o depotenziare l’articolo 18. L’irritazione è cresciuta man mano che
nel Paese, spontaneamente, i lavoratori sono scesi in piazza: e non per
chiedere soldi, ma per difendere un diritto acquisito, dimostrando “una forte
presa di coscienza”, come la definiscono in CGIL, del valore della posta in
gioco, Ciò che ha più colpito i suoi colleghi di segreteria, è stata la
“pacatezza e determinatezza” della Camusso nel ribattere, “sola contro tutti”,
alle “avances” pervenute; e il marcato “senso di autonomia” nel difendere lo
Statuto dei lavoratori e la connessa concertazione. Le propongono,
in alternativa, il modello tedesco, basato sulla “Mit-bestimmung”, la
cogestione? Bene. “Se si vuole intervenire sull’articolo 18 si prenda pure a
modello un Paese come la Germania, ma lo si rispetti: è molto più favorevole al
lavoratore e non cancella il reintegro”.
In
Germania un lavoratore non può essere licenziato per motivi disciplinari o
personali senza il parere del consiglio di fabbrica.
Al
Forum della Confcommercio di Cernobbio, è stata molto applaudita dalla platea.
“Parlerei di un sentimento comune che non appartiene solo ai lavoratori. In
gran parte il Paese si riconosce cioè come sia sbagliato pensare di ridurre le
tutele in questa stagione di crisi, come un passo di questo genere inasprisca
le condizioni di tanti. Speriamo che il Parlamento dia ascolto a queste
volontà”, ha scandito dal palco.
Una
“ribelle”, si direbbe, come quando al primo anno di liceo scientifico discusse
con il preside perché voleva attaccare un tazebao a scuola o quando andò via di
casa non appena maggiorenne (grazie al diritto di famiglia, che poretò la
maggiore età da 21 a 18 anni), ma con idee chiare:” il sindacato non è
antagonista, costruisce accordi”. E ovviamente, nell’interesse principale dei
suoi iscritti e dei lavoratori.
Pragmatica
certamente, ma di un pragmatismo connesso al merito delle questioni e a valori
di fondo, come la rappresentanza del mondo del lavoro e l’autonomia. Difficile
dire a quale dei segretari della CGIL assomigli. Qualcuno azzarda: per lo stile
sobrio e il carattere riservato ma coriaceo (dice di essere “timida”, il
contrario di arrogante) ricorda tratti di fernando Santi e di Giuseppe Di
Vittorio.
Ultima
di quattro sorelle, ha due matrimoni alle spalle. Da Andrea, un giornalista
conosciuto “quando eravamo ragazzini”, ha avuto Alice (“non è battezzata”)
ventiduenne specializzanda in Lettere antiche alla Normale di Pisa. Oggi la
Camusso è una single che non esclude di innamorarsi di nuovo. Intanto dirige, “con
determinatezza e sorriso”, i cinque milioni di iscritti alla CGIL, il maggiore
sindacato italiano e fa parte del movimento delle donne: è tra le promotrici
dell’associazione Usciamo dal silenzio. Occupa un posto di “grande
responsabilità”, dove è arrivata il 3 novembre 2010 dopo un percorso, dal 1977
al 1997, alla Fiom di Milano e della Lombardia, quindi alla Fiom nazionale. Qui
è restata poco perché estromessa dal segretario generale della Fiom, Claudio
Sabbatini, uno degli sconfitti nella storica vertenza Fiat del 1980. Nel 2001
Sergio Cofferati, la propone per la segreteria della CGIL lombardia: passa per
un voto e riesce a ricompattare l’organizzazione. Quindi nel 2008 il salto
nella segreteria confederale della CGIL e due anni dopo succede a Guglielmo
Epifani.
Il
lavoro sindacale la porta a contatto della politica, che giudica
severamente:”Si è rovinata perché non è in grado di moralizzarsi”. Ma una via
d’uscita c’è: “Smettendola di discutere su chi deve essere il leader”. Un
altolà al leaderismo, ai partiti personali, compresa Sel e Idv e un invito “a
radicarsi nel territorio”. Come la CGIL, appunto.
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