domenica 8 luglio 2012

GIUSTIZIA E OMISSIONI (Concita De Gregorio)..

È PER questo che la sentenza della Cassazione sulla Diaz genera sollievo, sì, perché una pagina di verità è stata scritta e certo assai peggio sarebbe stata un’assoluzione generale. Ma non basta, non riesce a ripristinare quella forse ingenua ma formidabile e condivisa sensazione di libera cittadinanza, di fiducia nel rispetto delle regole fondamentali, di possibilità di esprimersi e di manifestare consenso o dissenso che c’era prima. Prima di Genova, perché come le torri gemelle hanno segnato uno spartiacque per il mondo intero, il G8 ha scandito, in Europa, un prima e un dopo. Oggi la tenacia del sostituto procuratore Pietro Gaeta restituisce agli italiani una stilla di giustizia, ed è un’ottima notizia che qualcosa sia cambiato nel Paese e si possa ricominciare a farlo. Le pubbliche scuse e le pesanti meditate parole di Giorgio Manganelli, attuale capo della Polizia, fanno sperare negli uomini: perché le istituzioni sono gli uomini che le incarnano. Ciò non toglie che sia troppo tardi, e troppo poco. Undici anni sono il tempo che separa un bambino delle elementari dalla sua laurea, un esordio agonistico dal ritiro, sono il tempo di mezzo di una vita: troppi per aspettare i punti di sutura ad una ferita, quella che si vede sanguinare dalla testa di uno dei giovani della Diaz nella foto sui giornali che, identica di anno in anno, ferma il tempo da allora. Troppi per la ferita collettiva a un sentimento ormai in cancrena. Quelli che di noi erano alla Diaz, quella notte, sanno come sono andate le cose da quell’istante esatto. Dalle 23.30 del 21 luglio 2001. Sono andate come la sentenza assai tardivamente conferma, come ricostruisce per una piccola parte degli eventi da cui restano tuttavia esclusi i mandanti. Lo sanno con la precisione di un ricordo indelebile che chi ha potuto e voluto ha certificato fin dalle cronache del giorno dopo, nelle testimonianze ostinate e reiterate in tribunale, in ogni occasione pubblica e privata. Non ci volevano undici anni per dire che stavano tutti dormendo, nella scuola, che le luci erano spente quando sono arrivati i mezzi della Polizia e a centinaia i caschi blu. Che i vetri sono stati rotti dall’esterno verso l’interno, i cocci delle finestre erano tutti dentro, non uno in cortile. Che l’irruzione è stata comandata a freddo, che chi dormiva si è svegliato e ha cercato di salvarsi correndo su per le scale ma molti sono rimasti dov’erano, invece, perché non capivano e non sapevano cosa dovessero temere, e sui loro sacchi a pelo sono stati massacrati. Che non c’erano passamontagna di black bloc in quella scuola, nulla è stato portato via quella notte che non fossero persone in barella. Lo sappiamo da quel-l’istante perché lo abbiamo visto accadere minuto per minuto, abbiamo visto le luci accendersi dopo l’irruzione e sentito le urla salire lungo i piani, perché siamo entrati nella scuola subito dopo e a terra c’erano libri, diari, documenti, mutande, una bibbia in corridoio, una scatola di tampax per le scale, una copia del Don Chisciotte strappata, sangue dappertutto. Sangue sui registri della scuola, sulle maniglie antipanico delle porte, sui banchi, tantissimo sangue nei bagni. E quella scritta, comparsa subito, pennarello su foglio bianco, in inglese: non lavate questo sangue. Abbiamo visto in quel cortile, quella notte, il responsabile delle relazioni esterne della Polizia di Stato Roberto Sgalla, braccio destro di De Gennaro allora capo della Polizia, parlare al telefono cellulare fino ad operazioni concluse, per così dire. Fino a che il novantatreesimo corpo è stato portato via in barella. E abbiamo sentito il questore di Genova Colucci dire, poche ore dopo, che Sgalla era stato mandato alla Diaz da De Gennaro stesso, in quelle ore assente da Genova. Salvo ritrattare anni dopo, a processo, e modificare la versione: a convocare Sgalla, ha messo a verbale Colucci, sono stato io. Da questa nuova versione è scaturita la sentenza che certifica l’estraneità di De Gennaro ai fatti. Non fu il capo della Polizia, dunque, a disporre “la macelleria messicana” della Diaz — dice quella sentenza — né furono gli esponenti politici del centrodestra al governo presenti in massa durante le operazioni, nessuno dei quali ha mai pronunciato una sola parola di autocritica, di giustificazione, di spiegazione. Se ne deduce che gli alti dirigenti di Polizia ora sospesi dalle pubbliche funzioni, molti dei quali nel frattempo promossi a più alti incarichi e infine, undici anni dopo, condannati, abbiano agito quella sera di loro iniziativa: che abbiano disposto a freddo la mattanza senza essere stati da alcuno autorizzati a farlo. Così, una loro idea. Ricordiamo a chi avrebbero potuto chiedere un parere, proprio lì sul posto e sul momento, se ne avessero avvertita l’esigenza. A Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio e in quei giorni prima in visita alla sala operativa della questura poi, il sabato della morte di Carlo Giuliani, chiuso nella caserma di San Giuliano. A Claudio Scajola, allora ministro dell’Interno ma fin da allora evidentemente inconsapevole. A Filippo Ascierto, ex carabiniere e responsabile Difesa di An, in quei giorni a capo di una delegazione di parlamentari costantemente presente negli uffici di pubblica sicurezza: tra la sala operativa e il comando provinciale dell’Arma alla vigilia dell’assalto alla Diaz transitarono con Ascierto Giorgio Bornacin, An, eletto a Genova, Federico Bricolo, Lega, Ciro Alfano, Biancofiore, e Giuseppe Cossiga, eletto con Forza Italia. Fu suo padre Francesco qualche settimana dopo a pronunciare al Senato il celebre discorso in favore di Scajola, alla vigilia del voto che rinnovava al ministro la fiducia del Parlamento. In assenza dell’accertamento di una responsabilità politica e/o gerarchica le condanne di Gratteri, Luperi, Calderozzi e dei loro colleghi nulla dicono su quale sia stata la catena di comando che ha disposto il massacro della Diaz e qualche giorno dopo quello di Bolzaneto, carcere dove i reclusi venivano picchiati in cella al suono di Faccetta nera nei telefoni cellulari, suoneria del resto in voga ancora oggi negli uffici pubblici delle principali municipalizzate romane, chissà se è al corrente Alemanno. Giova infine ricordare, per quanto ovvio, che a Genova era naturalmente presente Silvio Berlusconi, allora e per molto tempo ancora presidente del Consiglio. Della morte di Carlo Giuliani disse, quel pomeriggio: “Un inconveniente”. Bene dunque che il clima sia cambiato, che si possa oggi salutare una pagina di verità con una consapevolezza collettiva che certo ci arriva anche dalle tragedie di Cucchi e Aldrovandi, chè il pericolo del sopruso vestito da istituzione è sempre in agguato. Bene le scuse, peccato per le omissioni. Resta ancora da scrivere, imminente, la sentenza per dieci manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio”, termini adatti ad una guerra benché di guerre tra eserciti non si sia vista traccia, a Genova. Le guerre si combattono tra schieramenti avversi e in armi, non le combattono i cittadini che manifestano contro coloro che sono chiamati a garantire la sicurezza di tutti, anche la loro. Per quei dieci manifestanti sono stati chiesti 100 anni di carcere. Anche dall’esito di quella sentenza dipenderà la possibilità che la ferita del G8 possa cominciare, con così grave ritardo e tante amputazioni, a chiudersi.(
La Repubblica del 07.07.2012)

domenica 8 aprile 2012

di notte – erri de luca


è bella di notte la città. c’è pericolo ma pure libertà. ci girano quelli senza sonno, gli artisti, gli assassini, i giocatori, stanno aperte le osterie, le friggitorie, i caffè. ci si saluta, ci si conosce, tra quelli che campano di notte. le persone si perdonano i vizi. la luce del giorno accusa, lo scuro della notte dà l’assoluzione. escono i trasformati, uomini vestiti da donna, perché così gli dice la natura e nessuno li scoccia. nessuno chiede conto di notte. escono gli storpi, i ciechi, gli zoppi, che di giorno vengono respinti. è una tasca rivoltata, la notte nella città. escono pure i cani, quelli senza casa. aspettano la notte per cercare gli avanzi, quanti cani riescono a campare senza nessuno. di notte la città è un paese civile

non c’era lavoro più importante – helen simonson

lei rise. e lui pensò che non c’era lavoro più importante, e più gratificante, del riuscire a farla ridere ancora

Sono briciole (Antonio Tabucchi)


la vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare… un po’ qua e un po’ là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l’altro?

sabato 7 aprile 2012

PER I LICENZIATI NON CI SARA’ LO SCIVOLO. SOLO IL CALCINCULO. (Di Dario Vergassola)

Nei giorni scorsi, il governo ha presentato la riforma del lavoro, scatenando la reazione dei sindacati e, seppure un po' in ritardo, quella del Pd. Bersani irritato con l'esecutivo, infatti, ha dichiarato: "I patti non erano questi". Pare che il governo abbia ignorato completamente le sue indicazioni, manco fossero alle primarie del Pd. Alfano, però, ha subito replicato a Bersani, appoggiando il governo, e dicendo: "No a una riforma al ribasso". Per intenderci una tipo: da Pci a Pds a Ds a Pd... In segno di protesta contro la modifica dell'articolo 18, la Cgil dal canto suo ha proclamato 16 ore di sciopero. Per due giorni, quindi, i lavoratori si asterranno dall'essere licenziati. Ma sulla questione dell'articolo 18 c'è anche chi si augura che si vada verso il modello tedesco. Cioè, in caso di licenziamento, gli operai della Fiat saranno riassunti dalla Volkswagen. Mario Monti e Elsa Fornero, intanto, tengono duro e difendono le scelte fatte illustrando orgogliosi la loro riforma punto per punto. Vediamone alcuni: Basta allo stage gratuito in azienda. Chi vuole caffè e fotocopie, le dovrà pagare. Il contratto a tempo indeterminato sarà dominante. Mentre l'operaio continuerà ad essere slave. L'articolo 18 non riguarderà gli statali. Che quindi potranno continuare ad essere assunti senza giusta causa. Per chi viene licenziato non ci sarà più lo scivolo. Solo altalena e soprattutto calcinculo. Tutto ciò che è previsto oggi dai vari tipi di ammortizzatori sociali dovrebbe confluire in una sorta di Inail per la disoccupazione universale. Compresa quindi quella di Yoda, Leila e Obi-Wan Kenobi: "Che la cassa sia con te!". Per i contratti a progetto, o i vecchi co.co.co., ci saranno più paletti. Inutile specificare dove li infileranno. Il presidente Monti si era raccomandato con la Fornero e con gli altri membri del governo che la riforma fosse pronta prima del suo viaggio in Cina. Sarebbe stato troppo complicato spiegare ai cinesi cosa sono i diritti dei lavoratori. A ogni modo il premier ha ribadito che dovrà essere il Parlamento a dire l'ultima parola sulla riforma del lavoro. Che, detto fra noi, è come se a me dessero l'ultima parola a un convegno di sex symbol. Infine, a rassicurare tutti, è arrivato anche Giorgio Napolitano, che ha difeso l'operato del governo e ha dichiarato: "Non credo che ci sarà una valanga di licenziamenti". E, anche se fosse, a lui che gli importa? Le valanghe i danni li fanno a valle mica sul Colle.

domenica 1 aprile 2012

LA RIBELLE PRAGMATICA di Carlo Patrignani (da Left)


La leader della Cgil tiene testa al premier, ai falchi liberisti e ai conservatori dentro il Pd. Riportando il lavoro e i diritti al centro del dibattito politico. Ritratto di Susanna Camusso.

Se il premier Mario Monti, voluto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha un motivo serio per esser preoccupato della tenuta del suo governo tecnico (che tecnico non è), questo motivo si chiama Susanna Camusso. Cinquantasei anni ad agosto, milanese, occhi azzurro acqua, capelli corti e folti biondo mesciato, è la prima donna alla guida della Cgil. Proprio lei riservata (non ama parlare della sua vita privata) e sobria, ma tenace nel difendere le sue idee, “acomunista” («sono lombardiana da sempre come mio padre ») senza trucco («niente lifting, niente maquillagge ») e senza trucchi («la vita pubblica deve essere coerente con la vita privata»), sta dando del filo da torcere al premier che da tempo spende parole di apprezzamento per le “riforme di struttura” di Riccardo Lombardi. Non solo le liberalizzazioni sarebbero riforme strutturali necessarie per abbattere quelle che Lombardi chiamava “rendite e posizioni di parassitismo”, ma lo sarebbe anche la riforma del mercato del lavoro, compreso l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che sancisce la “giusta causa” per il licenziamento. Per Monti è un ostacolo agli investimenti. Per la Camusso una legge di civiltà perché non permette licenziamenti discriminatori. Evidente tra i due contendenti la diversità sostanziale nell’interpretare il senso vero di quella strategia, finalizzata, per Lombardi, a ridistribuire il potere all’interno della società e a riformare radicalmente il capitalismo; come fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica o la scuola media unica con l’obbligo fino a 14 anni o lo stesso Statuto dei lavoratori approvato nel 1970. Chi ha ragione? Susanna Camusso, vicina al Pd, non credente (“non verrò mai folgorata sulla via di Damasco”, come è capitato a Piero Fassino e a Fausto Bertinotti), né battezzata (“la mia è una famiglia laica”, il padre lavorava nell’editoria, la madre di origine slava), con una carriera tutta interna alla CGIL, iniziata a vent’anni nella Flm, la categoria unitaria dei metalmeccanici (“è stata una stagione di grandi passioni”), come coordinatrice dei corsi delle 150 ore sulla formazione degli operai, e per la quale lasciò Lettere classiche alla Statale (“ i miei mi immaginavano archeologa”)? O ha ragione il premier Mario Monti, già rettore della Bocconi, economista di fama internazionale e fervente cattolico? La prima, con l’hobby della barca a vela (“non ha mai avuto i soldi per comprarla”), dei libri (predilige la Bartlett e le emergenti, Murgia e Avallone) e della cucina (piatto forte il gulash), che ha dalla sua parte gli operai, lavoratori e gente comune? O il secondo, elogiato dall’Ocse e dall?Ue, dai media italiani e internazionali (il Wall street journal gli ha dedicato un editoriale, che lo definisce così:”Fa la Thatcher: il premier italiano ha una rara opportunità di educare gli italiani alle riforme”)?

Proviamo a rileggere la lettera del 27 settembre 1962 con cui Lombardi tornava ad insistere con l’allora presidente del Consiglio, Amintore Fanfani di “non ritardare” l’avvio dei colloqui coi sindacati per lo Statuto dei lavoratori:”Siamo in presenza di una massiccia pressione sui salari e occorre dare non solo l’impressione ma la certezza che se non moltissimo si può fare in fatto di retribuzioni, tuttavia il governo di centrosinistra darà un bene più prezioso: un nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggiore libertà sindacale e dunque politica, un maggiore potere ai lavoratori”. Forse allora chi tra i due interpreta meglio il senso delle riforme strutturali è la Camusso. Qualche tempo fa, il leader della CGIL ebbe a dire: “Lombardi è uno dei pochi che non scinde mai il senso delle riforme rispetto alle caratteristiche del lavoro. Nelle sue ragioni sulla critica del non funzionamento del centrosinistra, ci mette i diritti dei lavoratori, lo Statuto, come punto fondamentale. […] Era uno molto attento ai ragionamenti su quante ore si lavorava, sull’esistenza di una vita oltre il lavoro, un ragionamento sulla persona, in termini laici”. In questi giorni la CGIL è stata sottoposta a pressioni molto forti anche di alto livello, dirette e indirette, spiegano in corso d’Italia: innanzitutto attraverso i media (Eugenio Scalfari e la Repubblica in testa, ma anche il Corriere della Sera che ha brindato alla fine della concertazione), per il “non possumus” a cancellare o depotenziare l’articolo 18. L’irritazione è cresciuta man mano che nel Paese, spontaneamente, i lavoratori sono scesi in piazza: e non per chiedere soldi, ma per difendere un diritto acquisito, dimostrando “una forte presa di coscienza”, come la definiscono in CGIL, del valore della posta in gioco, Ciò che ha più colpito i suoi colleghi di segreteria, è stata la “pacatezza e determinatezza” della Camusso nel ribattere, “sola contro tutti”, alle “avances” pervenute; e il marcato “senso di autonomia” nel difendere lo Statuto dei lavoratori e la connessa concertazione. Le propongono, in alternativa, il modello tedesco, basato sulla “Mit-bestimmung”, la cogestione? Bene. “Se si vuole intervenire sull’articolo 18 si prenda pure a modello un Paese come la Germania, ma lo si rispetti: è molto più favorevole al lavoratore e non cancella il reintegro”.

In Germania un lavoratore non può essere licenziato per motivi disciplinari o personali senza il parere del consiglio di fabbrica.

Al Forum della Confcommercio di Cernobbio, è stata molto applaudita dalla platea. “Parlerei di un sentimento comune che non appartiene solo ai lavoratori. In gran parte il Paese si riconosce cioè come sia sbagliato pensare di ridurre le tutele in questa stagione di crisi, come un passo di questo genere inasprisca le condizioni di tanti. Speriamo che il Parlamento dia ascolto a queste volontà”, ha scandito dal palco.

Una “ribelle”, si direbbe, come quando al primo anno di liceo scientifico discusse con il preside perché voleva attaccare un tazebao a scuola o quando andò via di casa non appena maggiorenne (grazie al diritto di famiglia, che poretò la maggiore età da 21 a 18 anni), ma con idee chiare:” il sindacato non è antagonista, costruisce accordi”. E ovviamente, nell’interesse principale dei suoi iscritti e dei lavoratori.

Pragmatica certamente, ma di un pragmatismo connesso al merito delle questioni e a valori di fondo, come la rappresentanza del mondo del lavoro e l’autonomia. Difficile dire a quale dei segretari della CGIL assomigli. Qualcuno azzarda: per lo stile sobrio e il carattere riservato ma coriaceo (dice di essere “timida”, il contrario di arrogante) ricorda tratti di fernando Santi e di Giuseppe Di Vittorio.

Ultima di quattro sorelle, ha due matrimoni alle spalle. Da Andrea, un giornalista conosciuto “quando eravamo ragazzini”, ha avuto Alice (“non è battezzata”) ventiduenne specializzanda in Lettere antiche alla Normale di Pisa. Oggi la Camusso è una single che non esclude di innamorarsi di nuovo. Intanto dirige, “con determinatezza e sorriso”, i cinque milioni di iscritti alla CGIL, il maggiore sindacato italiano e fa parte del movimento delle donne: è tra le promotrici dell’associazione Usciamo dal silenzio. Occupa un posto di “grande responsabilità”, dove è arrivata il 3 novembre 2010 dopo un percorso, dal 1977 al 1997, alla Fiom di Milano e della Lombardia, quindi alla Fiom nazionale. Qui è restata poco perché estromessa dal segretario generale della Fiom, Claudio Sabbatini, uno degli sconfitti nella storica vertenza Fiat del 1980. Nel 2001 Sergio Cofferati, la propone per la segreteria della CGIL lombardia: passa per un voto e riesce a ricompattare l’organizzazione. Quindi nel 2008 il salto nella segreteria confederale della CGIL e due anni dopo succede a Guglielmo Epifani.

Il lavoro sindacale la porta a contatto della politica, che giudica severamente:”Si è rovinata perché non è in grado di moralizzarsi”. Ma una via d’uscita c’è: “Smettendola di discutere su chi deve essere il leader”. Un altolà al leaderismo, ai partiti personali, compresa Sel e Idv e un invito “a radicarsi nel territorio”. Come la CGIL, appunto.

C'è solo della gente da difendere...e tutto qua!

Ho aperto un gruppo su facebook "Il 25 Aprile non si tocca" con l'intento di raccogliere tante adesioni contro l'apertura degli esercizi commerciali per il 25 Aprile, ricorrenza storica della liberazione dal nazifascismo. Per dire al Sindaco di Livorno, uomo che si definisce di sinistra con origini comuniste, che certe ricorrenze non si possono dimenticare aprendo delle saracinesche commerciali. Perdere la memoria storica rende tutti più poveri e in balia del populismo, quel populismo, signor Sindaco, che sostiene che della politica se ne potrebbe fare a meno. Ci ripensi, signor Sindaco, inviti la sua assessore a ritirare l'ordinanza di apertura dei negozi nel giorno che ricorda coloro che hanno data la vita per il nostro, nonostante tutto, Meraviglioso Paese! Per aderire al gruppo "Il 25 aprile non si tocca" andare sulla pagina del gruppo di facebook e cliccare su "mi piace".
Questo il link https://www.facebook.com/Il25AprileNonSiTocca

domenica 1 gennaio 2012

LA LEZIONE DI MARAT


Leggendo gli ultimi fatti di cronaca di persone costrette a "rubare" cibo perchè ridotte in miseria, mi pare interessante riportare un discorso fatto da Marat nel 1793 di fronte ai giudici del tribunale rivoluzionario in difesa di un uomo che aveva rubato per fame. L'uomo accusato fu assolto. Il discorso si inserisce bene, a mio avviso, nell'attuale contesto economico e sociale in cui ci stiamo trovando (sfiduca nella politica, egoismo, disoccupazione...). Buona lettura, Stefano.



«Cittadini – Se la società reclama il diritto di condannare in uomo, essa è allora tenuta ad offrirgli, a garantirgli, un’esistenza da uomo. Se …essa non fa che opporgli degli ostacoli e l’obbliga a soffrire una miseria crudele, fino a che egli strappa violentemente il vincolo sociale, allora quell’uomo non fa che riprendere i diritti che la società ingiustamente gli toglie». «Cittadino Marat» interruppe il presidente severamente «voi state tentando di giustificare il furto e i crimini!». «Io non giustifico nulla. Ma affermo che nella vostra società ingiusta voi mancate di ogni ragione che possa autorizzarvi a condannare il crimine. Poiché la società, nell’interesse stesso della sua esistenza, per poter pretendere il rispetto dell’ordine pubblico da ogni suo singolo membro dovrebbe innanzitutto soddisfare ai bisogni di tutti. Ma qual è stata finora la sorte dei poveri? Essi veggono nello Stato una classe di gente, che menan vita comoda e gaia, mentre essi stentano e soffrono. Gli uni gavazzano nell’abbondanza, gli altri mancano del necessario. Fatica, pericoli, fame, disprezzo ed insulti – questa è la condizione dei poveri. Sì: io lo grido in faccia a voi. È stata sempre la classe dominante che ha spinto il popolo alla disperazione sottraendogli i mezzi di vita. Il lavoratore non è nemmeno sicuro di trovare qualcosa da fare. Se non può pagare i balzelli, gli tolgono perfino la paglia su cui giace. Egli è ridotto all’elemosina. Irritato dalla durezza di cuore dei ricchi, non trovando aiuto in nessuna parte, egli farebbe qualunque cosa quando ode i suoi bambini piangere per fame. Permettetemi di mettermi al posto del mio cliente e parlarvi come se io fossi lui: Sono io colpevole? Non lo so. Ma io so che feci quello che dovevo fare. L’istinto di conservazione è il primo sentimento dell’uomo. Voi stessi non conoscete un dovere maggiore. Chiunque ruba per vivere, quando non ha altro mezzo di vita, non fa che esercitare i suoi diritti naturali. Voi mi accusate di aver violato l’ordine e le leggi. Che importano a me quest’ordine e queste leggi? A me, a cui esse non hanno fatto che del male? Voi che per mezzo delle leggi condannate sempre tanti sventurati, voi potete ben predicare la sottomissione alle leggi. Voi rispettate le leggi perché esse vi assicurano una comoda esistenza. Ma posso riconoscere le vostre leggi io, che sono stato da esse schiacciato? Non mi dite che tutti i membri della società ricevono beneficio dalle leggi, quando è evidente il contrario. Paragonate la sorte vostra alla mia. Mentre voi vivete in pace, in mezzo al lusso ed all’abbondanza, noi siamo esposti alle intemperie, alla schiavitù, alla fame. Per soddisfare la vostra sete di godimenti non basta che noi lavoriamo il suolo col sudore delle nostre fronti; noi dobbiamo innaffiarlo anche con le nostre lacrime. Che cosa avete voi fatto per vivere nel lusso a spalle nostre? Ma vi fosse almeno un termine alle nostre sofferenze. Non ve n’è alcuno. Il fato del povero è irrevocabile. La miseria è il destino eterno della nostra classe. Chi ignora i vantaggi che la ricchezza dà a chi possiede? Non occorrono talenti, meriti, virtù: basta il capriccio. Ai ricchi appartengono tutti i privilegi. In loro difesa, sono costrutte le flotte. Il comando dell’esercito, l’amministrazione del pubblico denaro, il diritto di saccheggiare lo Stato: – essi hanno tutti i privilegi. Bisogna aver denaro per accumular denaro. Altrimenti non vi è possibilità di uscire dalla miseria. E il genere di impiego mostra la differenza delle classi. Le occupazioni migliori, come le belle arti, ecc., sono riservate ai ricchi. Per noi, sono lasciati i lavori pericolosi ed insalubri. Dappertutto noi siamo negletti e respinti, mentre sono aiutati quelli che non ne hanno bisogno. Voi mi direte: lavorate. È facile il dirlo. Ebbi io la possibilità di trovar lavoro? Caduto in povertà per la concorrenza di un ricco rivale, ho lottato invano per conservare un tetto sotto cui ricoverarmi. Disfatto dalla malattia, non mi restava altro per vivere che andar mendicando un pane. Ed anche questo mi era a volte negato. Dormii ogni notte sulla paglia, avvolto tra gli stracci, ed esibii il triste spettacolo della mia miseria. Non un’anima ebbe pietà di me. Spinto alla disperazione dall’abbandono, privo di tutto, tormentato dalla fame, profittai della notte per levare, per forza, ad un passante una piccolezza ch’egli mi avrebbe altrimenti negata. Perché io feci uso del mio diritto naturale, voi mi mandereste in prigione. Condannatemi, se lo credete necessario alla sicurezza dei vostri privilegi. In mezzo agl’inenarrabili patimenti a cui sono stato soggetto, la mia sola consolazione fu di maledire il cielo per avermi fatto nascere in mezzo a voi».

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